Fonte: Juranews
Il divieto di licenziamento della lavoratrice madre è reso inoperante, ai sensi dell’art. 3 lettera a) del d.lgs. 26 marzo 2001 n. 151, quando ricorra la colpa grave della lavoratrice, che non può ritenersi integrata dalla sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, ovvero di una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, essendo invece necessario – in conformità a quanto stabilito nella sentenza della Corte costituzionale n. 61 del 1991 – verificare se sussista quella colpa specificamente prevista dalla suddetta norma e diversa, per l’indicato connotato di gravità, da quella prevista dalla disciplina pattizia per i generici casi di inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto.
Al riguardo, l’accertamento e la valutazione in concreto della prospettata colpa grave si risolve in un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, come tale non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione logicamente congrua e giuridicamente immune da vizi (Cass. n. 19912/2011; Cass. n. 9405/2003), come nella specie.
D’altronde, la verifica in ordine alla sussistenza della colpa grave che rende inoperante il divieto ex art. 54, comma 3, lett. a), del d.lgs. n. 151/2001, in presenza di una fattispecie autonoma e peculiare, non integrata da un giustificato motivo soggettivo ovvero da una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale generica giusta causa, deve necessariamente estendersi ad un’ampia ricostruzione fattuale del caso concreto ed alla considerazione della vicenda espulsiva nella pluralità dei suoi diversi componenti, quali le possibili ripercussioni sui diversi piani personale, psicologico, familiare ed organizzativo della fase dell’esistenza in cui la donna si trova.
Dunque si tratta di un potere proprio del giudice di merito, che richiede un rigore valutativo adeguato, ponendosi tale colpa come causa di esclusione di un divieto che attua la tutela costituzionale della maternità e dell’infanzia (Cass. n. 2004/2017).